Il modello d’Israele può giovare allo Stivale. Ma solo se revisionato. - Alan Advantage

Come fa una piccola nazione, con una popolazione di circa 8.5 milioni di abitanti, a divenire un centro nevralgico in ambito startup, arrivando persino a creare un proprio modello? Semplice (almeno a dirlo): si coinvolge lo stato e i suoi investimenti nelle giovani startup più innovative, ci si concentra sul settore R&D per il consolidamento dello sviluppo tecnologico e si garantiscono maggiori possibilità alle aziende neonate di affermarsi sul mercato. Almeno ciò è quanto si legge ovunque sull’open innovation israeliana.

“Do Something Great neon sign” by Clark Tibbs on Unsplash

In breve, la politica di innovazione israeliana si basa principalmente sul programma di prestiti garantiti da chief scientists e dallo stato, sulla base della loro attuabilità, tecnica e commerciale, e il potenziale di generare competenza, impegnandosi a coprire i costi tra il 66% e il 90% del necessario.

O, ancora, con Yozma, un piano di incentivi fiscali per aziende straniere, con la promessa di raddoppiare ogni investimento con i fondi governativi. La crescita del settore terziario che ne è conseguita ha visto la propria disponibilità di capitale aumentare di 60 volte, da US$58 milioni a US$3.3 miliardi tra il 1991 e il 2000.

Tutto ciò sembra estremamente profittevole, specialmente nel momento in cui anche i cugini d’oltralpe hanno visto il proprio stato centrale inondarli con circa €10 miliardi, con l’obiettivo di rendere Parigi l’hub continentale per l’innovazione in campo startup. Sicuramente un flusso di denaro così copioso non può far male, ma l’esempio israeliano e francese lasciano trapelare un qualcosa di cruciale: la forte presenza statale nello sviluppo del settore. Se provassimo a implementare questo tipo di modello in Italia gli esiti potrebbero essere ben diversi.

Per quanto sfortunata possa essere, l’Italia sta passando un periodo storico-politico molto difficile, è vero. Ma non dobbiamo dimenticare che lo Stivale è stato estremamente influente nel determinare la cultura, l’arte e persino la politica europee.

L’italiano è da sempre stato un popolo imprenditoriale, con un senso innato del gusto e dello stile. In ogni dove, e a chiunque lo si chieda, “Italians do it better” è lo slogan dei prodotti nostrani all’estero. La qualità che esportiamo e il posizionamento della parola “Italia” nella mente estera è quella di alti standard stilistici e tecnici.

“Fiat 500 model, symbol of Italian style” by Robin Benzrihem on Unsplash

Allora, come mai non si riesce ad avere un minimo di standard anche nell’organizzazione del settore, nei finanziamenti e nella mente imprenditoriale del popolo? Probabilmente perché ci si aspetta che debba essere lo Stato a provvedere a quei finanziamenti necessari allo sviluppo dell’innovazione italiana. Ma il cambio governativo, che avviene a un ritmo fin troppo veloce, non può che esacerbare la già sentita assenza statale.

Più che una rivoluzione top-down, si dovrebbe quindi puntare a una rivoluzione dal basso per accertare la mente imprenditoriale del popolo italiano. L’esempio di Roma come centro di molte delle startup italiane è chiaro. Alan Advantage, azienda di consulenza nella gestione della innovazione, sta promuovendo e sostenendo la crescita di aziende innovative, più di 30, appartenenti al proprio network, investendo nelle quote di circa metà di esse e sostenendone lo sviluppo, e si impegna a ricercare ulteriori nuove tecnologie per la formazione di business dirompenti, prendendo parte a questa possibile rivoluzione nel segno dell’innovazione.

Mario Klingemann, 79530 Self-Portraits (2018). Installation “Gradient Descent” at Nature Morte. Courtesy of Nature Morte, New Delhi.

Progetti come ReHumanismuno degli sforzi più recenti di Alan Advantage, sono la prova di come sia possibile creare un network basato sull’open innovation attraverso la mobilitazione dell’imprenditorialità italiana e dei singoli, più che basata sul pesante uso di incentivi statali. Infatti, ReHumanism è un’iniziativa che si propone, come primo passo, di approfondire l’uso dell’arte contemporanea in relazione all’impatto delle tecnologie AI, provvedendo anche al conferimento di un premio in denaro e alla possibilità di esporre le proprie opere d’arte nella capitale.

Difatti, l’AI è divenuto un trend mondiale che sta influenzando il rinnovamento di un ventaglio di ambiti molto ampio basati sull’innovazione.

L’arte è sicuramente un’eccellenza italiana, in grado di contaminare e migliorare le tecnologie emergenti..

Per quanto il modello israeliano abbia avuto un oggettivo successo, posizionandosi fra i big dell’innovazione globale, è anche vero che il suo modello statalista in Italia necessita di essere revisionato e adattato alle condizioni politico-storiche del nostro Bel Paese.

Inoltre, non è tutto oro ciò che luccica. Mario Cervantessenior economist all’OECD, ne indica anche due dei maggiori difetti:

  1. la creazione di lavori a lungo termine e la crescita nel profitto non stanno al passo con i pesanti investimenti nell’alta tecnologia;
  2. molte startup israeliane vengono vendute sul mercato statunitense, non espandendosi mai in Israele, e ponendo sempre più dubbi sul rendiconto in termini di creazione del lavoro nel paese.

Inoltre, è ambiguo quanto sia efficiente un modello basato sulla regolazione statale. La storia insegna che quando lo Stato entra nell’economia imprenditoriale di un paese, a risentirne è il livello di competizione nel settore privato. Il Product Market Regulation Database dell’OECD assegna un punteggio estremamente negativo alle politiche economiche di Gerusalemme. Ciò significa che la promozione della competizione fra aziende è molto bassa. Difatti, l’Economic Survey del 2009, incoraggia lo stato israeliano a ridurre le proprie barriere regolatrici e altri canali d’influenza statale sulle aziende.

Un open innovation model è possibile in Italia. Ma emulare il modello israeliano e la sua forte presenza statale può risultare tanto pericoloso quanto difficile nel contesto nostrano. Una rivisitazione del modello invece può giovare al settore innovativo delle startup, anche considerando il potenziale che rappresenta la mente imprenditoriale del popolo italiano.

“Coworking space” by rawpixel on Unsplash

Invece di aspettare, si potrebbe contribuire alla costituzione di un ambiente prospero di idee e menti giovani. Città come Roma e Milano si stanno affermando come centri nazionali; Milano è storicamente già riconosciuta come centro finanziario europeo e capitale della moda, Roma delle istituzioni e di un comparto tecnologico in fermento, con la sede principale di LVenture Group, che include uno dei più efficaci programmi di accelerazione di startup d’Europa, Pi Campus, che sta investendo in AI-applied Startups Worldwide e in Eccellenza Italiana. Molte altre ottime iniziative stanno nascendo nella Capitale con un vigore ed una passione che fanno ben sperare.

Pensate, come metafora, a quello che l’Italia ha fatto nella storia con il pomodoro: un prodotto delle terre americane, importato in Europa, coltivato con tanto amore e tanta cura in Italia fino a farlo diventare un simbolo della tradizione culinaria italiana; in pratica l’Italia lo ho fatto diventare migliore come qualità di quello importato e al centro di tanta creatività culinaria.

Attraverso la dimostrazione di iniziative concrete, come quelle che Alan Advantage sta portando avanti, si possono attirare i capitali delle nazioni più attive nel Capitale di Rischio a livello internazionale in ambito Artificial Intelligence, ad esempio, come gli USA e la Cina.

Le startup del Dragone attraggono circa il 47% degli investimenti globali nel settore. La sola Alibaba ha investito US$11 miliardi nei suoi 10 top investments nel 2017 e Tencent ha investito in più di 60 compagnie quest’anno divenendo punti di riferimento per le startup che vogliono immettersi nel mercato. Nonostante il colosso statunitense sia testimone di un’erosione del settore, non vedendo più il 95% dell’attività delle startup tenersi sul suolo americano, gli investimenti continuano a fiorire, avendo raggiunto i US$90 miliardi nel 2017. Mentre il volume degli investimenti in Italia nel 2016 ammontava a €208 milioni, con un investimento medio di €2.3 milioni mirato all’acquisto del 20% del pacchetto azionario.

Si può fare di meglio e le possibilità ci sono. Tocca solo a noi prenderle al volo. Coraggiosi e determinati, voltiamo pagina partendo dall’Italia.

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